
Il fucile da caccia
Dal romanzo di Inoue Hasushi, Adelphi Edzioni
traduzione di Giordio Amitrano
adattamento di Rocco Familiari
regia di Piero Maccarinelli
con Anita Bartolucci, Maurizio Donadoni, Chiara Muti, Valentina Sperlì
Questo breve gioiello della letteratura giapponese, scritto nel 1949 e pubblicato da Adelphi nella bella traduzione di Giorgio Amitrano, mi sembrava un’ottima conclusione alla “trilogia dell’amore” che ho messo in scena in questi anni. Il primo lavoro, di Tom Stoppard, “L’invenzione dell’amore”, era incentrato sull’impossibilità per il protagonista, un importante filologo studioso della lirica latina, di manifestare il suo amore all’essere da lui amato. Il secondo, “Frammenti di un discorso amoroso”, tratto da Rita Cirio dall’omonimo testo di Roland Barthes, era un affettuoso omaggio al grande libro del semiologo francese sull’innamoramento e le sue declinazioni. Questo terza e per il momento ultima tappa della trilogia, affronta il discorso amoroso da una prospettiva femminile, anche se interpretata da uno scrittore maschio, Inoue Yasushi. Nelle prime due tappe, infatti, la natura maschile e spesso omosessuale del sentimento amoroso definiva un percorso che il più delle volte prescindeva, o meglio non approfondiva, il sentimento femminile. Di questo piccolo gioiello letterario, mi interessava approfondire teatralmente le personalità e i diversi atteggiamenti rispetto al tema centrale, alla dicotomia amare/essere amato dei quattro personaggi descritti dall’autore. Ho chiesto a Rocco Familiari, di cui già conoscevo la sensibilità e l’abilità nella descrizione delle diverse patologie individuali, la riduzione e l’adattamento scenico di questo breve romanzo. Inoue Yasushi compone un meraviglioso quartetto di amanti o meglio di esseri in preda al gioco amoroso. “Amare o essere amato” si chiederà in un passo esemplare del racconto Shoko. (….Quando, giunte alla fine della loro vita, serenamente distese, volgeranno il loro viso al muro della morte, fra la donna che ha goduto appieno della felicità di essere amata e la donna che può dire di avere avuto poche gioie ma di avere amato, a quale delle due Dio vorrà concedere l’estremo riposo?). Quattro vite, quattro destini in un equilibrio impervio, legati fra loro da un filo sottile e spesso nello stesso tempo, in un’atmosfera che l’autore ha ambientato nel Giappone degli anni ’50, in un clima borghese quasi opulento, ma che potremmo ritrovare anche nella Svezia di Bergman o nella Danimarca di Lars von Trier…. La passione non è mai esibita, i sentimenti sono forti, ma altrettanto fortemente celati…la tensione è costante la rabbia è sorda e trattenuta, sembra non esplodere mai……ognuno di loro segue un percorso, è abitato da una vita segreta. Non c’è realismo nella scelta scenografica di rappresentazione. Tutto è volutamente sospeso, quasi sbalzasse da stampe giapponesi moderne, quasi astratto, non c’è realismo ma c’è verità, realtà… I rapporti seguono il loro corso e solo per brevi istanti i monologhi che si incrociano vengono popolati da flash back, da brandelli di dialogo, da oscure e talora terribili rivelazioni. Ogni passione pulsa e la mente dei quattro è attraversata da ricordi visivi, frammenti di situazioni vissute, brandelli di realtà, ricordi scontornati e brucianti. Per tutti loro lo spazio è uno spazio mentale, non realistico segnato da luci o da suoni. La fredda malinconia che popola gli occhi di Misugi Josuke, unico personaggio maschile di questo dramma da camera, sembra ritrovarsi negli occhi dello scrittore nella dicotomia dell’amare o essere amato che innerva ogni momento del testo. L’esistenza quotidiana dei personaggi non è tuttavia marcata da segni vistosi e tangibili; tutto scorre… Dirà Josuge a un certo punto: “Comunque se ripenso agli anni lontani in cui cominciai a interessarmi alla caccia, quando il successo mi arrideva sia nella vita pubblica che in quella privata, non ero certo l’uomo solitario di oggi, ma già allora non potevo fare a meno di avere sempre il fucile a tracolla”. E in questo segno di Josuge, così maschile, portato, esibito sulla spalla, sta tutta la solitudine del suo personaggio e forse è questo il serpente che lo abita, così diverso dal serpente che vive in Midori, la moglie, o in Saiko, l’amante o in Shoko la nipote, figlia dell’amante. La solitudine, ancora l’amare o l’essere amato al centro del testo, della rappresentazione: ognuno è abitato da una vita segreta, inavvicinabile. L’ambientazione, pur mantenendo i cospicui riferimenti al mondo giapponese, sarà il più possibile astratta, perché il discorso amoroso non può essere realisticamente corretto e deve poter tendere alla verità.
Piero Maccarinelli